Mercoledì 20 luglio ho incontrato a Montelungo di Loro Ciuffenna un bellissimo gruppo di giovani (studenti delle superiori e dell’università) con cui abbiamo affrontato i temi della pace e lodell’obiezione di coscienza alla guerra. Abbiamo cercato di comprendere assieme almeno alcuni aspetti di realtà complesse, utilizzando il metodo dell’ascolto reciproco, del rifiuto degli apriorismi e degli stereotipi. Abbiamo individuato alcuni aspetti: il ruolo dell’informazione, la dignità delle persone, i contesti storici, le azioni possibili. Fra i tanti motivi di preoccupazione che ci portano i tempi difficili che stiamo vivendo è importante sottolineare i segni di speranza che vengono dal desiderio di conoscere e di impegnarsi di tanti giovani. Riporto di seguito alcuni spunti della giornata e alcuni consigli di lettura.
Nel 1972 (legge 772) l’Italia riconosceva il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare e la possibilità di “servire la Patria” anche attraverso la nonviolenza e la gestione positiva dei conflitti. Nel 1992 veniva concesso l’asilo politico a quanti si rifiutavano di combattere la guerra nella ex Iugoslavia.
Sono passati rispettivamente cinquant’anni e trenta anni da allora, e soprattutto sono passati 77 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e 74 dall’entrata in vigore della nostra Costituzione, il cui articolo 11 prescrive:
«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali;
consente in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
Avevamo l’impressione che, almeno in Europa, gli orrori delle due guerre mondiali (una sorta di “Guerra dei Trent’anni” del Novecento, 1914-1945) ci avessero resi immuni dal virus della guerra aperta, fatta di eserciti che si combattono, di civili che vengono massacrati, di violazione delle stesse norme di diritto internazionale, di manipolazione delle notizie e di propaganda. C’erano stati episodi che abbiamo tentato di rimuovere e silenziare, come la guerra nei Balcani o in Crimea ma -appunto – abbiamo voluto credere che si trattasse di fatti marginali. Avevamo creato l’Unione Europea, visto cadere il muro di Berlino e – come si erano sopite le secolari rivalità tra le nazioni dell’Europa occidentale – pensavamo che sarebbe accaduto altrettanto anche a Est. Ma il vaccino, così dolorosamente conquistato a prezzo di quasi 80 milioni di morti nel mondo, sembra aver perso di efficacia, e ci troviamo impreparati e sorpresi dalla recrudescenza del male.
In realtà eravamo assieme vittime e responsabili di un grave errore di prospettiva: in un mondo in cui “tutto è connesso” ci siamo convinti che le tante guerre combattute in varie parti del pianeta non ci riguardassero, che le ingiustizie palesi e crescenti fossero tollerabili, che la sicurezza basata sulle spese militari e la politica di potenza ci tutelasse. Invece fin dal 2014 Papa Francesco aveva usato l’espressione “terza guerra mondiale a pezzi”. Ancora il 4 dicembre 2020 ripeté:
“Diamo un’occhiata al mondo così com’è. Guerre ovunque.
Stiamo vivendo la terza Guerra Mondiale a pezzi”
A molti sembrò un paradosso: le guerre c’erano ma quasi nessun giornale o medium elettronico ne parlava e quindi non erano importanti. Eravamo convinti che se un albero cade nella foresta ma nessuno lo ha sentito è come se non fosse avvenuto nulla. Ma gli alberi cadevano, ed erano tanti. Il “Conflict data program” dell’Università di Uppsala (Svezia) ha contato 169 conflitti nel 2020, l’ultimo anno per cui i dati sono disponibili, per un totale di oltre 81.447 vittime. Un nuovo record, dopo cinque anni di relativo calo. E da allora lo scenario è ulteriormente peggiorato. Citiamo solo: India-Pakistan per il controllo del Kashimir, Cina-India per la questione dell’Aksai Chin o Arunchal Pradesh e Israele-Iran, oltre ora a Russia e Ucraina.
Avevamo dato per scontata la pace, ma non era una buona pace: perché era una pace per pochi (“non si può pensare di vivere sani in un mondo malato”) e perché avevamo dimenticato che non è una condizione conquistata una volta per tutte, ma richiede continuamente impegno, ricerca, scelte, condivisione, coinvolgimento.
Pace deriva da pax, e pax è in relazione con pactum, deriva cioè da accordi che gestiscono i conflitti in modo costruttivo e non distruttivo. Comunemente si dice che la guerra c’è sempre stata e sempre ci sarà: il che rappresenta un doppio errore.
- Il primo è che non ha senso usare lo stesso termine “guerra” per epoche storiche diversissime. Nel 1440 si scontrarono ad Anghiari le truppe di Milano contro quelle di Firenze, Venezia e Stato pontificio. Machiavelli magari esagera nel dire che in 20-24 ore di zuffa ci fu un solo morto, per di più a causa della caduta da cavallo (gli storici parlano invece di 900 morti), ma in ogni caso siamo ben lontani dai massacri novecenteschi, per lo più tra l’altro di civili inermi. Nel 1960 Herman Kahn pubblicava On Thermonuclear War introducendo il termine megadeath per indicare un milione di morti, e gli strateghi militari parlano tranquillamente di MD a decine, o centinaia. Nemmeno le modalità delle cosiddette “guerre ibride” hanno qualcosa a che vedere con quanto è stato chiamato per secoli guerra”.
- Il secondo errore riguarda la confusione tra conflitto e guerra. Il conflitto in effetti è inevitabile nelle relazioni umane: può essere a livello interpersonale come di gruppo, sociale o internazionale (in realtà il conflitto può essere anche interno alla stessa persona). Ma il conflitto, anche tra Stati, può essere gestito con strumenti diversi da quelli della guerra, come appunto prescrive l’art. 11 della Costituzione. È l’incapacità a elaborare e gestire il conflitto che lo trasforma in guerra, una parola che deriva dal germanico werra, “mischia furibonda”, caos, sconfitta della politica e della razionalità. Le guerre non dicono chi ha ragione, ma chi è più forte (Hannah Arendt). Non sono la “prosecuzione della politica con altri mezzi” (Von Clausewitz), ma il più grave fallimento della politica.
Letture consigliate:
- Thomas Merton, Fede e violenza,
- Zahn, Il testimone solitario. Vita e morte di Franz Jägerstätter
- Bo Lidegaard, Il popolo che disse no. La storia mai raccontata di come una nazione sfidò Hitler e salvò i suoi compatrioti ebrei.
- Mario Avagliano e Marco Palmieri, Di pura razza italiana
- Don Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù
- Herman Kahn, On Thermonuclear War