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Connessi, ma in relazione



Quarto incontro del ciclo “La rivoluzione digitale” presso Uniel Arezzo (e davvero ringrazio i corsisti per la presenza e l’interesse). Questa volta parliamo dell’ambiente di Rete: vogliamo essere connessi non per essere “intrattenuti”, o per essere “in relazione”? C’è una ambiguità di fondo da sciogliere

Dov’è la radice di quella ambiguità del termine “comunicazione”, ormai una “buzz word” tra le tante che ciclicamente e inutilmente inondano i media e le nostre conversazioni?  Potremmo rispondere con l’esempio dell’ombelico: esistono contemporaneamente una connessione e una relazione, non separate in maniera assoluta ma ciononostante differenti. Il feto è connesso alla madre: certo è anche in relazione, ne percepisce anche lo stato d’animo, sviluppa in un certo qual modo una sorta di dialogo. Tuttavia nel grembo materno il bambino prova necessità, non bisogni[1]. Ha tutto senza chiedere, gli scambi sono guidati da processi involontari. È onnipotente, pur nella sua estrema fragilità. Dopo la nascita il cordone ombelicale viene tagliato: la connessione passa in secondo piano rispetto alla relazione. Avvengono scelte, si percepisce che l’onnipotenza deve cedere il passo alla disponibilità, al desiderio reciproco di entrare in comunicazione. Il bambino non riceve più il cibo perché è connesso tramite il cordone: prende il latte dal seno della madre. Lei sceglie di porgerlo, lui sceglie di suggere. Normalmente la madre guarda il bambino che prende il latte e gli sorride, così che il bambino è invitato a rendere il sorriso e a far sbocciare l’autocoscienza, sia pure in forma aurorale. Qualcuno ha scelto di guardarmi, sono degno di attenzione, posso restituire questa attenzione. È un archetipo impresso nella nostra carne, un imprinting che possiamo analizzare anche filosoficamente, ma solo perché è già strutturato vitalmente.

Gino Severini, “Maternità”, 1916

Già Platone ha più volte messo a fuoco il difficile distinguo tra comunicazione e manipolazione o, per dirla con Michelstaedter anche se non proprio nello stesso senso, tra persuasione e retorica. In teoria un modo c’è, ma è di fatto inapplicabile. Dovremmo essere perfettamente informati e perfettamente dotati di tutte le competenze necessarie. In quel caso sapremmo distinguere il vero sapiente dall’abile sofista, l’informazione affidabile dalle fake news. Di fatto operiamo le scelte in condizioni di conoscenza limitate, per cui ci affidiamo a criteri di economia conoscitiva. Non possiamo essere esperti di tutto: la società si basa sullo scambio di prodotti (fisici e mentali) che altri hanno preparato e di cui in qualche misura ci dobbiamo fidare. Ma in che modo possiamo gestire questa fiducia? In che modo il dibattito politico nell’era del digitale può svilupparsi in un quadro democratico non solo di nome? In queste pagine intendo mettere in evidenza come la connessione (caratterizzata da certi automatismi propri di tecnologie niente affatto neutre) debba essere accompagnata dalla relazione (caratterizzata dalla decisione di prendersi cura). Non si tratta di contrapposizione, ma di un processo circolare: prendersi cura vuol dire scegliere una modalità tecnologica piuttosto che un’altra, e una determinata modalità tecnologica renderà più o meno facile il prendersi cura.


[1] G. C. Palazzi, Non oltre il bisogno, ma oltre la cupidigia, “Avvenire” 11 gennaio 2019.

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