Bernini, La Verità svelata dal Tempo, 1646-1652
Ciascuno di noi è intrappolato nel proprio punto di vista? È un problema antico. Platone racconta il celebre “mito della caverna” (Repubblica, Libro X). Se uno nasce e rimane in una caverna, immaginerà che il mondo è quello, e penserà che uscire alla luce del sole porti accecamento, non una visione migliore. Il mito ci ammonisce a non credere che il nostro modo abitudinario di vedere la realtà sia davvero la realtà. E va bene. Ma dopo, una volta fatta questa (fondamentale) scoperta, cosa succede? Ci sono due possibili strade: imparare a uscire dal proprio punto di vista, cercando una sintesi – sia pur provvisoria – di differenti posizioni; oppure decidere di utilizzare questa debolezza del nostro modo di rappresentare la realtà per manipolare a piacimento l’altro e, in genere, l’opinione pubblica.
Giusto per fare qualche esempio del secondo caso (ma si potrebbe allungare molto la lista, in contesti differenti): alcuni membri dell’amministrazione di George W. Bush a suo tempo hanno esplicitamente dichiarato che la realtà è solo ciò che chi ha potere riesce a far credere agli altri: “Ora siamo un impero, e quando agiamo costruiamo la nostra realtà”. È quello che in sostanza scrivono anche oggi alcuni filosofi, come Richard Rorty: “La verità è ciò che i vostri contemporanei vi fanno passare”. Sono frasi ambivalenti: descrivono una situazione ineluttabile o sono una denuncia per cambiarla? È vero che la verità è complessa e difficilmente possiamo descriverla pienamente. Ma davvero tutta la realtà è modificabile a piacimento della nostra volontà di potenza? C’è una bella risposta di Clemenceau agli scettici che sostenevano che gli storici futuri avrebbero interpretato in molti modi la prima guerra mondiale. Rispose Clemenceau: “Non diranno che il Belgio invase la Germania”.
Esiste almeno per eventi basilari una incontrovertibilità? Nietzsche non la pensava così: sua è la famosa frase: “I fatti non esistono, esistono solo interpretazioni” (La volontà di potenza. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori, Bompiani, Milano 2011, p. 271). Certo Nietzsche era in polemica con il positivismo e la sua convinzione che si potesse fare conoscenza a partire da un insieme di fatti oggettivi: “il fatto è divino”, dicevano. Ma avrebbe potuto scrivere, forse più correttamente “Non esistono fatti senza interpretazioni”, cosa un po’ differente e molto più vera. Invece ha assunto una posizione estrema, aggiungendo: “Le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria” (Su verità e menzogna in senso extramorale, Adelphi, Milano 1980, p. 362).
Tutto sommato è una derivazione dall’idealismo tedesco del primo Ottocento: gli uomini vivono in un mondo di significati culturali che hanno prodotto loro, ma di cui non sono consapevoli e che vivono come “oggettivi” – come un mago che abbia “creato” un mondo con la magia e poi si sia collocato in quel mondo dimenticandosi di essere stato lui a crearlo. Questo vale per le masse, mentre le élites sono perfettamente in grado di distinguere e anzi sono i creatori dell’opinione pubblica, attraverso le loro narrazioni (storytelling). Per Nietzsche non possiamo uscire dal prospettivismo, vale a dire dal vedere il mondo in una prospettiva parziale e distorta, a causa dei nostri interessi e dei nostri valori – lenti deformanti. La “verità”, sostiene sempre Nietzsche, è una sorta di “surrogato di Dio”. “Esistono molte specie di occhi, quindi molte verità e perciò: nessuna verità.” “Tradotto” in italiano: se “la” verità è fatta di centomila verità, non c’è nessuna verità (Uno, nessuno, centomila: rendiamo omaggio a Pirandello).
La questione è molto delicata. Prendere coscienza che tendiamo a vedere il mondo da una condizione particolare (la nostra prospettiva: il nostro corpo, il nostro sesso, la nostra lingua, la nostra formazione, il nostro lavoro, le nostre relazioni, le nostre conoscenze) è un elemento fondamentale. Dopo di che è proprio la comunicazione che ci rende capaci, almeno come possibilità, di passare da una prospettiva all’altra, di ascoltare l’interlocutore, di “mettersi nei suoi panni”. Abbiamo tante possibilità di incontrare altri punti di vista: dai neuroni specchio che ci propone la biologia ai grandi romanzi che ci fanno vivere molte altre vite oltra la nostra, dall’attrazione sessuale che ci apre all’incontro con persone esterne al nostro clan familiare alla contemplazione dell’arte o allo studio della scienza, cose che ci fanno sperimentare mondi sconosciuti. Se siamo in grado di passare da una prospettiva all’altra, perché non cercare di unire le versioni parziali in una immagine ragionevolmente condivisa e non manipolativa del mondo? In fondo si chiama democrazia, oppure scienza, oppure relazione. Se la “verità” è solo un complimento che facciamo al risultato” (Rorty) come distinguere la “verità” imposta dal più forte? Che succede se forti interessi acquisiscono il monopolio dell’informazione? Si potrebbe obiettare che già questo avviene. È vero: eppure è importante che possiamo dire “avviene, ma non è giusto”. Se accettiamo un prospettivismo totale, non abbiamo più nemmeno la possibilità della denuncia e della ribellione.
Oppure, da un altro lato, come distinguere tra posizioni opinabili e clamorose falsificazioni? Ci sono negazionisti dell’Olocausto, ad esempio. Forse Clemenceau si sbagliava? Potremmo assistere a un mondo in cui si potrà sostenere che nel 1914 è stato il Belgio a invadere la Germania? L’Ucraina ha invaso la Russia? La Terra è piatta? Non siamo mai stati sulla Luna? Harry Frankfurt, illustre filosofo morale a Princeton, ha scritto nel 2005 il libro On Bullshit (scusate l’ineleganza ma il titolo purtroppo va tradotto con qualcosa come Sulle stronzate – vedete un po’ di cosa si occupano i filosofi…). Detto in termini più professionali: c’è un criterio per distinguere opinioni differenti ma sensate da affermazioni senza valore? Non posso qui sintetizzare, ma Frankfurt dice che le Bullshit sono pericolose forse ancora più delle menzogne. Rimando invece a un tratto più antico e dal titolo più accademico: Agostino e il suo trattato Contro la menzogna.