Comunicazione,Digitale Comun I care. Prendersi cura nel tempo della rivoluzione digitale

Comun I care. Prendersi cura nel tempo della rivoluzione digitale



«Viviamo in un mondo saturo di parole, di immagini, di informazioni». Ma come poter comprendere questa realtà? Quali strumenti possiamo utilizzare per interpretarla? Come possiamo prenderci cura di noi stessi e degli altri in un contesto che ha cambiato così radicalmente le relazioni e la comunicazione umana? Sono alcune delle domande che attraversano le pagine del libro. Le modalità di comunicazione nel mondo contemporaneo ci costringono a ripensare alla radice problemi e categorie interpretative della società umana. Lo sviluppo delle tecnologie e la rivoluzione digitale hanno posto nuove e più complesse sfide. Lo spazio della rete (internet) è diventato un “settimo continente”, un ulteriore luogo di relazione. Ciò che viene qui offerto è un viaggio nel mondo della comunicazione contemporanea, uno sguardo sulla realtà ispirato al motto di don Milani: I care.

Viviamo in un mondo nel quale i circuiti elettronici sono sempre accesi, gli strumenti della comunicazione sono sempre più piccoli, pervasivi, ormai una estensione del nostro corpo, dei nostri organi di senso, della nostra mente. Da diversi decenni sugli schermi delle nostre tv non compare più la scritta “fine delle trasmissioni”, nessuna pausa interrompe il fluire elettronico dei monitor. Siamo immersi in una galassia mediatica nella quale più mezzi di comunicazione sono presenti nello stesso istante a sollecitare la nostra attenzione.

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Tutto questo basta a renderlo anche un mondo ricco di comunicazione? Siamo protagonisti, testimoni o vittime del moltiplicarsi di strumenti, occasioni, luoghi del comunicare? Dobbiamo aspettarci un cambiamento radicale nei modi di conoscere e strutturare il mondo, le relazioni con gli altri, noi stessi e il nostro destino?

Queste e altre domande si affacciano da qualche anno nella mente di tutti noi: figli e padri, giovani e di età matura, studenti e insegnanti, credenti e non credenti. Forse lo fanno in maniera diversa: ci sono i “nativi digitali” per i quali l’immersione nella osmosi comunicativa è un dato di fatto e la perenne connessione alla rete un dato fisiologico. Per essi il lento apprendistato concettuale, la sistematica lettura dei testi, l’ascolto ininterrotto di una argomentazione e di una dimostrazione sono non solo lontani ma spesso incomprensibili. Accanto a loro, come in un altro mondo, ci sono le generazioni più mature che al massimo sono “immigrati digitali”. A queste persone sembra che il filo della memoria si spezzi, che il patrimonio culturale elaborato in secoli si perda, che il mondo si stia banalizzando[2]. Ma è proprio così?

Probabilmente ci è toccato di vivere in una fase straordinaria della nostra storia comune e alle generazioni attuali è affidato un compito decisivo: costituire un ponte, un passaggio, una interfaccia tra differenti modalità di percepire il mondo, sviluppare strategie conoscitive, elaborare etiche della convivenza e della relazione. Per far questo occorre essere consapevoli di ciò che abbiamo dato per ovvio nel passato, anche recente: il significato e le caratteristiche della comunicazione scritta, dell’accesso limitato all’informazione, della iniziazione progressiva al sapere. Occorre essere allo stesso tempo consapevoli della continuità e della frattura che coesistono tra il vecchio continente della cultura scritta e quello nuovo della comunicazione digitale, in particolare di quello che è stato chiamato il “settimo continente”, lo spazio della rete.

Per metterci in condizioni di poter sviluppare questa consapevolezza occorre riflettere sull’importanza della comunicazione nella costituzione stessa della persona umana. Dobbiamo intraprendere un viaggio, per molti aspetti affascinante, che ci porti a scoprire l’enorme ricchezza racchiusa in quello che spesso giudichiamo ovvio e degno di poca attenzione, nonché le potenzialità di quel “nuovo” che a volte ci intimorisce. Scoprendo magari di essere chiamati a una interpretazione etica, politica e religiosa di qualcosa che pensavamo soltanto tecnologico.

La comunicazione rappresenta la struttura profonda della persona umana. Secondo la Bibbia è il linguaggio a connaturare in maniera specifica l’essere umano. Il soffio divino (Genesi 2,7) rende l’uomo «un essere vivente»; nel servizio religioso della sinagoga si rende questa espressione così: lo rese «uno spirito parlante». Questa struttura profonda dell’essere umano è immagine dell’archetipo divino (il Logos, il Verbo, la Parola), per cui diviene chiaro che l’immagine di Dio è l’uomo vivente. Il modello primo della comunicazione è il modello trinitario: tre Persone distinte ma della stessa Sostanza. In altri termini: la comunicazione è tale se mantiene le diversità (evitando la confusione indistinta della omologazione) e garantisce la capacità di entrare in contatto. Dal punto di vista antropologico questa verità profonda si sviluppa nell’evitare due errori contrapposti. Il primo è quello di immaginare la possibilità della comunicazione umana come standardizzazione e prevalenza di un solo modello culturale: ci parliamo e siamo in grado di vivere assieme perché assumiamo tutti lo stesso format: parliamo tutti inglese (o magari cinese mandarino…), facciamo tutti le stesse cose, ci riferiamo tutti alla stessa economia, alla stessa politica, alla stessa cultura… Il secondo errore è speculare e altrettanto grave: pensare che difendere la propria autonomia sia credere alla propria autosufficienza, che l’orgoglio per la propria identità comporti la negazione delle identità altrui, che non la comunicazione ma la lotta per la sopraffazione (o al massimo la semplice e fredda tolleranza del diverso, la divisione del mondo fisico e di quello mentale in cittadelle fortificate) siano il destino dell’umanità.


[2] «Questa gioventù è guasta fino in fondo al cuore. Non sarà mai come quella di una volta. Quella di oggi non sarà capace di conservare la nostra cultura». Non sono parole di oggi, risalgono a circa 3.000 anni fa e sono state ritrovate nei pressi di Babilonia.

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